di STEFANO RAVAGLIA
Se n’è andato nel giorno del derby. E non poteva essere altrimenti. Ma se n’è andato troppo presto, Ray Colin Wilkins. Che con Jordan e Hateley costituiva una coraggiosa banda britannica all’assalto degli anni Ottanta rossoneri. Che erano stati terribili: con lo scudetto sul petto, il decimo, il Milan si era ritrovato catapultato in B per via del calcioscommesse e di nuovo retrocesso sul campo nel 1982. Poi, tornato in A, era iniziata quella sorta di anticamera che avrebbe portato al grande ciclo d’oro sacchiano, e a tutto il resto. Grandi manovre sull’asse Inghilterra-Milano in quegli anni. Mentre lo “sciagurato” Luther Blisset riprese un volo per Londra, sponda Watford, da dove era venuto, nell’estate ’84 Wilkins sbarcò invece a Milano per tre miliardi e mezzo, da Manchester. Lo sguardo accigliato, la folta capigliatura che aveva lasciato posto ora a un volto stempiato, quel fare tipicamente inglese, battagliero e mai intorpidito. Era questo che piaceva di quel Milan: Wilkins, così come “Lo squalo” o “Attila”, non sarebbe potuto essere protagonista di un grande ciclo, ma ha rappresentato la voglia e l’entusiasmo della gente rossonera di ritornare a respirare l’aria buona di un tempo.
Soprannominato “Rasoio” per l’omonimia con la famosa marca, era in campo pure quel 28 ottobre del 1984, a proposito di derby: e fu proprio Hateley ha svettare e a incornare Zenga in un pomeriggio rimasto leggenda. Wilkins cuciva e troneggiava a metà campo, giocava come se fosse sempre un semplice divertimento e non risparmiava mai il suo cuore e i suoi polmoni per la causa rossonera. Quel cuore che lo ha tradito la settimana scorsa, a 61 anni, facendolo cadere dentro un’altra battaglia che ha perduto. Nel 1987 lasciò il Milan, facendo spazio ai protagonisti che rivoluzionarono il modo di intendere il football sino a quel momento in Italia. Chiuse a 40 anni, ancora nella madrepatria, al Qpr. Nel 2010, come vice di Ancelotti, vinse la Coppa d’Inghilterra e la Premier League con il Chelsea. Quanto Milan a Stamford Bridge. E poi il buio: l’esonero nel novembre di quell’anno e da lì l’incapacità di vivere senza calcio. Alcol e depressione, la consapevolezza di essere sprofondato troppo in basso, l’aiuto psicologico e un apparente ritorno alla vita normale, seppur con appresso una colite ulcerosa che lui definiva “Imbarazzante. Devo andare in bagno un sacco di volte”.
Un carattere complicato il suo, non certo discolo ma flebile: “Ho sempre sofferto di ansia, anche quando a 18 anni ero capitano delle giovanili del Chelsea. Mi davano il valium per calmarmi”. Gli uomini che vediamo in mutandoni e maglietta sfidarsi nella contesa domenicale, sono pur sempre uomini come noi. Fragili e pertanto umani. Fino al capolinea di un mercoledì, quando Milan e Inter si sono sfidate a San Siro. “E’ dura rimpiazzare ciò che ti dà lo sport”, disse alla “Gazzetta” nel febbraio del 2014. Sarà dura rimpiazzare te, “Rasoio”, protagonista generoso di un povero ma romantico Milan. Anzi, impossibile.