di STEFANO RAVAGLIA
È stato un sergente, prima da giocatore e poi da allenatore. Lontanissimo da Rocco, vicino a Sacchi per l’intransigenza, ma è stato soprattutto Fabio Capello, che ha annunciato il suo ritiro dalle panchine dopo l’esperienza cinese allo Jiangsu. E che in quattro anni al Milan nei Settanta, si è cucito addosso lo scudetto numero dieci, con relativa stella. Correva l’anno 1979, ultima stagione sua e di Rivera, la prima invece di Franco Baresi, in un simbolico passaggio di consegne. Poi è passato alla scrivania: il delirio manageriale berlusconiano, lo mise a capo della polisportiva Milan. Calcio, Hockey, Pallavolo, Rugby, e lui a sovraintendere.
Nell’estate del 1991 il sostituto di Sacchi è già in casa: dopo la breve parentesi del 1987, in cui assaggiò il primo mini traguardo da allenatore portando il Milan in Uefa dopo aver sostituito Liedholm e uno spareggio con la Sampdoria, gli vengono affidati pieni poteri dal principio. Mah, rumoreggia la stampa, chissà. L’eredità è pesante, tutte quelle medaglie sacchiane ottenute con quel gioco dirompente, un quadriennio così grande da sembrare irripetibile. Fabio è il dottore che corre in soccorso di un Milan spremuto dal tecnico di Fusignano: esigente ma senza burbere ossessioni come il suo predecessore. Lascia libera la squadra di giocare in altro modo, la fa rifiatare e ripartire quasi da zero, tanto per lui conta non prenderle. Eccome: nell’annata 1992-93 le reti subite in campionato saranno solo 15. E l’anno seguente, Seba Rossi, quel portierone dal carattere un po’ complicato, stabilirà un record di imbattibilità durato un ventennio, prima che Buffon facesse meglio dei suoi 929 minuti. Altro che eredità pesante, Fabio saprà fare addirittura quasi meglio: 4 scudetti in cinque anni, il primo ottenuto senza sconfitte, l’ultimo nel 1996 prima di andare a distribuire gloria anche a Madrid.
Molto italiano, poco europeo, hanno sempre detto. Vero fino a un certo punto: nel ’93 vince tutte le partite in Champions League perdendo la finalissima col Marsiglia, con Van Basten a mezzo servizio che gioca l’ultima partita in carriera. Perché non fu inserito Gullit al suo posto? Burrascoso il rapporto con l’olandese, che si incrina a tal punto da rischiare lo scontro fisico. Il capolavoro è datato 1994: Crujiff si bulla del suo Barcellona, “Il calcio del futuro”. Per lui il Milan è roba superata, per Capello no. In una amichevole a Firenze, qualche giorno prima, il Milan perde male 2-0. Nota bene: la Fiorentina aveva appena disputato il campionato di serie B. Eppure, Don Fabio non ha dubbi “So cosa devo fare”. Metterà Desailly in mezzo al campo, Filippo Galli a sostituire Baresi, spostando Maldini al centro per coprire l’altro buco lasciato da Costacurta. Entrambi i difensori erano squalificati. E a sinistra? Christian Panucci, un giovanotto arrivato l’anno prima dal Genoa. Sarà una passeggiata di salute, come a Barcellona cinque anni prima: 4-0, ma questa volta contro un avversario molto più forte e con un dominio tecnico allucinante.
L’anno successivo un’altra finale, a Vienna, con l’Ajax. Si fa male Savicevic il martedì in allenamento, e davanti giocano Massaro e Simone. Buon Milan, ma quella nidiata di olandesi che faranno strada (Seedorf, Overmars, Davids, con nonno Rijkaard a metà campo, grande ex) è troppo forte, e i lanceri passano a cinque minuti dalla fine con un gol di Kluivert. Poi si incrina qualcosa tra Capello e il Milan: A fine 1995, con il Milan in testa ma tutt’altro che sicuro del titolo, la società decide di ridiscutere il nuovo contratto più avanti. Una clausola inaccettabile per Capello, a cui si potrà dire di tutto ma non certo che non va fino in fondo nelle sue convinzioni. Fabio&Silvio si incontrano a scudetto arrivato, maggio 1996, ma non ne viene fuori nulla di buono. Così Capello emigra a Madrid, vince il titolo col Real (Panucci lo seguirà in Spagna) e poi torna al capezzale di un Milan a fine ciclo dove il Cavaliere stavolta gli dà carta bianca. Arriva una torre di Babele: Ba, Kluivert, Smoje, Cruz, Bogarde, Maini, eccetera eccetera. Niente da fare: decimo posto, finale di Coppa Italia persa e definitivo saluto alla causa rossonera.
Fabio Capello ha vinto dappertutto: anche a Roma, dove è impossibile per tutti non farsi inghiottire dall’eccesso di entusiasmo o di ferocia. Reputerà, quelli giallorossi, gli anni più difficili, che si concluderanno nel peggiore dei modi: dopo lo scudetto del 2001 e un altro sfiorato nel 2004, mentirà dicendo che non sarebbe mai andato alla Juventus. Ci finirà, e con lei cadrà anche nel tritatutto di calciopoli. Pur esente da responsabilità giudiziarie, verranno tolti a lui e ai bianconeri i due scudetti conquistati sul campo. Un altro salto a Madrid, stagione 2006-07, esattamente dieci anni dopo la prima esperienza e un altro titolo. Forse ha fallito solo con le nazionali: la Russia, e ancor prima l’Inghilterra, seppur con le attenuanti del gol-non gol ai Mondiali sudafricani e del solo “37% di giocatori convocabili” come ebbe a dire. Poco importa. Giù il cappello davanti a Fabio Capello. Un allenatore carismatico e poco affabile, ma tremendamente vincente.