di STEFANO RAVAGLIA

 

Se negli anni Cinquanta gli ambasciatori del Milan erano Liedholm e Nordahl, se i Sessanta e i Settanta furono il Regno di Rivera e nel primo Milan berlusconiano Van Basten era il paladino di un grandissimo Milan, l’epoca moderna che pare oggi così sbiadita in questi anni difficili, ha un solo nome nell’immaginario milanista: Ricardo Izecson dos Santos Leite, per tutti Kakà.

Il brasiliano compie oggi trentasei anni e senza calcio giocato, abbandonato da poco, dovrà reinventarsi. E’ stato il prototipo del calciatore moderno: velocità, tecnica, dribbling, visione di gioco. Arrivato nell’agosto 2003 per 8,5 milioni, sarebbe dovuto restare ancora una stagione al San Paolo e invece sbarcò a Malpensa con il vuoto intorno, la faccia pulita e gli occhialini da scolaretto. “Il mio idolo è Rai“, per la cronaca non la prima emittente televisiva italiana ma un altro brasiliano, campione del mondo nel 1994 che ha giocato anche nel Psg.

Se il tanto vituperato Luciano Moggi preferì non acquistarlo per via di quel nome un po’ così, il Milan e tutto il popolo rossonero se lo sono coccolato fino in fondo, almeno fino a quel 2009 che lo portò a Madrid, lontano da Milano e da una felicità che non aveva altra sede che San Siro, Milanello e l’aria rossonera. Con l’ira e il grido romantico e struggente di migliaia di innamorati e di uno stuolo di milanisti sotto casa sua sei mesi prima quando pareva stesse passando al Manchester City. Uno smacco parzialmente rimediato nel 2013, quando tornò a casa ma in un Milan già desolante e a metà di un guado, tale da doverlo celebrare solo col motivetto gallianesco “certi amori non finiscono” tratto da Venditti e con il gol numero 100 con la maglia del suo cuore.

Kakà correva verso la porta e portava automaticamente su tutta la squadra. Quando prendeva palla nella sua metà campo, sapevano già tutti che si sarebbe girato e avrebbe puntato a rete. E così dovevi stargli dietro, affare complicato perché lui andava a cento all’ora. Cosi bucò il Celtic nel 2007 ai supplementari, così fece col Fenerbahce due anni prima. Sono Kakà, toglietevi di mezzo. Ha segnato e fatto segnare, conquistato i cuori dei tifosi ma soprattutto delle tifose, ha dimostrato come nel calcio ci si può imporre anche senza tatuaggi, isterismi, creste e con la faccia sorridente.

Kakà ha reso semplici le cose più difficili, come quando conquistò in fotocopia il Belgio con due gol d’autore: 2003, Bruges-Milan e 2006, Anderlecht-Milan. Gironi di Champions League, rossoneri in dieci a scalare una montagna e lui che tira fuori il coniglio dal cilindro. Gli si deve molto di quella Coppa dei Campioni ateniese: detto del gol al Celtic ha punito anche Bayern e Manchester di un Ronaldo ancora diamante un po’ grezzo, travolto a San Siro sotto la pioggia anomala in un sera di maggio in semifinale. Senza scomodare le bandiere, Kakà è stato comunque il simbolo di un nuovo ciclo e il trascinatore del gruppo ancelottiano così come Gullit lo era stato di quello griffato Sacchi. Treccine, reggae e tante donne da una parte, occhialini e fede religiosa dall’altra: due modi diversi di essere immortali. Auguri Ricardo e… obrigado.

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