di STEFANO RAVAGLIA
Accadde una sera d’inverno. “Tornavo da Venezia, ero andato ospite a una serata dove c’erano anche dei giocatori del Napoli. Mi raccontavano che avevano dissidi con Ottavio Bianchi, che lo spogliatoio era spaccato. Tornai a Milanello direttamente e l’indomani, incontrando la squadra, dissi a tutti: lo scudetto non è perduto”. Arrigo Sacchi dixit. Quello che era arrivato dal nulla e veniva soprannominato “signor nessuno”. E che, con un lavoro di cesello più faticoso del previsto, aveva modellato il Milan a sua immagine e somiglianza: pressing, fuorigioco, corti in trenta metri. Arabo per quei tempi in Italia. E invece si stavano aprendo le porte di un nuovo modo d’intendere il calcio e magari anche la vita: all’attacco.
Faraonica presentazione al Palatrussardi, poi le prime difficoltà con l’eliminazione dalla Uefa per opera dell’Espanol e quella partita a Verona del 25 ottobre 1987 dove già ci si giocava tutto. Il testone di Virdis portò il Milan in paradiso e in barba alla “fatal Verona”, quella domenica Verona fu foriera di benessere. Il petardo su Tancredi, portiere romanista che viene tramortito dallo scoppio il 13 dicembre a San Siro, porta al Milan uno 0-2 a tavolino pesantissimo. Che viene prontamente riscattato sette giorni dopo: l’orgoglio del Milan nel derby e la pressione di un Gullit trascinatore, porta a uno dei tanti autogol di Ferri immortalati anche da una canzone di Ligabue.
L’alba del nuovo anno porta la riscossa: il 3 gennaio arriva il Napoli capolista. Segna Careca e poi sui partenopei si abbatte un tornado. Virdis, Colombo, Gullit e Donadoni: quattro a uno e tanti saluti. Si gioca punto a punto in un finale entusiasmante, con il Milan che deve fare a meno per lungo tempo del gioiello Van Basten e che trova in Virdis l’uomo della provvidenza. Il 10 aprile però, il cigno di Utrecht, fa in tempo a segnare un gol pesantissimo: quello all’Empoli a San Siro, che continua a tenere accesa la fiammella della speranza. Poi il Milan va all’Olimpico, segna il sardo e poi Massaro, 2-0. Il 24 aprile derby di ritorno: ancora Gullit e Virdis, lesto ad approfittare di una disattenzione di Passarella. Il risultato è bugiardissimo: il Milan domina e sconquassa i cugini per novanta minuti. E si arriva al primo maggio, stadio San Paolo: il Napoli ha perso a Torino e pareggiato a Verona e vede i rossoneri a -1. Giampiero Galeazzi entra in campo a intervistare Maradona: “E’ la finale del mondo”, dice l’argentino. Gli azzurri sono campioni in carica e inseguono il bis, il Milan viene da nove anni di guai (retrocessioni e rischio fallimento) e non vince lo scudetto dal 1979.
Sole, caldo, stadio pieno e Diego che aveva annunciato: “non voglio vedere bandiere rossonere al San Paolo”. Ci sono, in uno spicchio piccolo piccolo là in basso. E ruggiscono per prime: su una punizione dal limite deviata dalla barriera, indovinate chi arriva? Virdis, e 1-0. Poi ci pensa il numero 10: la spada di damocle, come Sacchi definiva Maradona, piove sul Milan e all’intervallo è 1-1. La sua punizione proprio non si può prendere: toglie le ragnatele all’incrocio e Galli più che sfiorarla altro non può fare. Milan intimidito? Macché. Gullit per Virdis, ed è 2-1. Gullit per Van Basten, 3-1. Lui trascina, gli altri segnano. Il gol di Careca di testa, serve solo per le statistiche. Il silenzio del San Paolo è pari a quello che regna su Napoli quella domenica, deserta come fosse ferragosto. Occhi allo stadio, orecchie sulle radioline dove la cronaca è affidata ad Ameri. Altra Italia, altro Milan. Quando Lo Bello (sì, quello che due anni dopo in un certo senso risarcirà il Napoli…) fischia la fine, Sacchi entra in campo e non si scompone. “Ha vinto la squadra migliore, e questo pubblico straordinario lo sta sottolineando”. Stanno applaudendo, con solennità, dentro a quel silenzio. Ha vinto il Milan, ha vinto il calcio. Dopo lo 0-0 contro la Juventus, il 16 maggio a Como arriva il punto del tricolore numero undici. Festa a Como, rientro in serata e subito a San Siro con l’autostrada dei Laghi colorata di rossonero. E il meglio doveva ancora venire.