Due eliminazioni e una esclusione dai Mondiali non sono bastate: quando cambieranno sul serio le cose?

di STEFANO RAVAGLIA

 

Il Foggia che rischia la C per aver impiegato un paio di milioni di euro ottenuti in modo poco chiaro. Il Parma che qualche anno fa centra l’Europa League e poi finisce in serie D una volta dato un occhio ai conti. Decine di club tra B e C che non riescono a iscriversi al campionato, e il Milan stesso che chiude perennemente in larga perdita il suo bilancio, così come tante altre squadre di A che non dovrebbero nemmeno giocarci. Se prendiamo i giornali del 2010, del 2014 e di fine 2017, troveremo le stesse, identiche frasi: “piazza pulita”, “rinnovare”, “ripartire dai giovani”, “anno zero”. Eppure, dopo l’eliminazione per mano della Slovacchia, poi della coppia Costa Rica-Uruguay e l’esclusione dal torneo del 2018 per mano della Svezia, l’Italia non è ancora riuscita a ripartire. Se si fa eccezione per qualche struttura ben avviata, qualche realtà invidiabile (l’Atalanta) e il modello Juventus, il calcio di casa nostra annaspa ancora.

Sulla “Gazzetta dello Sport” di oggi, Tavecchio, ex presidente della FIGC, ammette il suo errore più grande. Non dare una riforma strutturale al movimento? Non controllare i bilanci birichini dei club di A? No, non aver aumentato l’ingaggio a Conte, perché “se lo avessi fatto sarebbe rimasto, e saremmo andati al Mondiale”. Una indiretta frecciata anche nei confronti di Ventura: se si sapeva che fosse un CT mediocre, perché non è stato cambiato prima o nemmeno mai preso? Sicuri che il problema sia tutto qui? Come al solito, da noi, è gettonata la soluzione più semplice e meno impegnativa, a discapito di un lavoro di fondo. Grane che si riflettono in ottica Milan: per quanto la sentenza Uefa possa essere stata severa, e per quanto i rossoneri abbiano pagato sempre il suo prezzo alla giustizia sportiva (calcioscommesse 1980, calciopoli 2006), è innegabile che una società che chiude in pesante perdita il bilancio da più anni, dovrebbe rientrare in un serio piano di rinnovamento per permettere non solo di avere l’ok fuori dai confini, ma anche di far crescere il movimento verso l’alto.

Pare “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: tutto cambi, perché nulla possa cambiare. Il calcio italiano spende più di quanto incassa e non ha una Nazionale, seppur volenterosa, che possa competere con federazioni più attrezzate. A poco servono gli sfottò contro i tedeschi: nel 2002, dopo la sconfitta contro il Brasile a Yokohama, hanno saputo rinnovare il loro calcio partendo dalla base e costruendo circa 400 centri di allenamento ed educazione al calcio spendendo 10 milioni di euro l’anno. Ora, dopo una eliminazione al girone  del Mondiale (peraltro già capitata a tante Nazionali nel recente passato) per loro è sufficiente rinnovarsi e cambiare solo due tubi e un lampadario. Dalle nostre parti, c’è ancora da mettere le fondamenta.

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