Il punto su quando accaduto nell’ultima settimana: tutto cambi perché nulla debba cambiare? O qualcosa cambierà sul serio?
di STEFANO RAVAGLIA
A giorni di monotonia, vuoto e desolazione come quelle malinconiche domeniche estive in città quando tutti sono in spiaggia, sono seguiti molti sassi nello stagno rossonero in questo caldo luglio. A Mondiale archiviato e raduni iniziati, i blocchi di partenza della nuova stagione si assestano. E si assesta, pare, soprattutto il romanzo rossonero. Che è passato dalle “Grandi Speranze” di Dickens, alla sofferenza tipica di Kafka, toccando poi punte di tragedia shakespeariane. Il 21 luglio 1999 il Milan festeggiava a San Siro i suoi 100 anni di storia con una grande festa in famiglia, diciannove anni dopo potrebbe, con il CDA che ha ufficializzato nuovi cambiamenti, essere iniziata una nuova era. Eh sì, ma quante volte abbiamo sentito dire questa parola? Prima con i cinesi, poi con Gattuso nuovo allenatore, poi con Elliott. Sarà la volta buona? Andiamo per punti.
ELLIOTT. A vederla in superficie, nulla di quanto già non si sapesse. Se Yongong Li, figura ormai già volatilizzatasi nella mente dei rossoneri con la stessa facilità con cui tutti ne tessevano le lodi (quali?) e ne difendevano la verità del patrimonio (quale?), non avesse adempiuto alla faccenda, come poi è accaduto, il Milan sarebbe divenuto del fondo americano. Che è appunto ciò che è accaduto. Cinquanta milioni di aumento di capitale, volontà di investire e far crescere il club. Sì, ma come? Al momento siamo ai soliti proclami, che furono anche quelli di Li un anno e mezzo fa. Logico che non tutto può accadere in una settimana e il sottoscritto confida si stia lavorando a un business plan, come comunicato. Crescita dei ricavi commerciali, progetto stadio anche per chi da San Siro non vorrebbe mai andarsene perché è un pezzo di cuore, diminuzione della perdita di bilancio in un triennio, puntando al pareggio e alla virtuosità. Tutti punti interrogativi a cui Elliott deve ancora rispondere nei fatti e nelle intenzioni. E date le chiacchiere degli ultimi due anni, da Mr. Bee a Mr. Li, ci pare doveroso averne le scatole piene e chiedere che si facciano fatti e non lavori di mano, come diceva un comico romagnolo qualche tempo fa. E pretendere che l’esultanza per il passaggio al fondo americano non sia dovuta a cose astratte, ma sia tangibile quando ci saranno risposte concrete. Resta la sensazione che comunque, nel medio o lungo periodo, il Milan non resterà a vita di Paul Singer.
LEONARDO. Chi scrive, era presente quella sera a San Siro di sette anni fa. Derby, e 3-0 al “giuda interista”. Ed era pure colmo di rancore per quanto accaduto. In un calcio dove non esistono più bandiere e non si può certo insultare chi cambia casacca, la questione relativa al brasiliano fu l’unica a darmi noia, così come continua a darmi noia oggi. Leonardo al Milan non è stato solo un calciatore, ma un simbolo, tanto dietro la scrivania, quanto soprattutto nella beneficienza di “Fondazione Milan”, da lui stesso creata e fatta crescere nei primi anni. Per questo e per molto altro, ho vissuto come uno sgarbo il passaggio all’Inter per trenta denari. Poi, dopo aver capito che la carriera di allenatore non faceva per lui, è andato a fare il dirigente a Parigi. Uno scudetto, un po’ poco per la causa. Una squalifica di nove mesi per una spallata a un arbitro e l’addio: “Non mi piace fare il dirigente. E’ un ruolo politico e a me la politica non piace”. Beh, si decida. A questo, sommiamo il fatto che le minestre riscaldate sovente non hanno successo. Può essere sufficiente aver scoperto Kakà per giustificarne il ritorno? Staremo a vedere.
BONUCCI. Prima odiato, poi amato, ora di nuovo odiato? Perché questi cambi repentini d’umore, gente? Suvvia. Arrivato con un progetto che pareva saldo, in una squadra che stava per rilanciarsi, lui stesso forse non si aspettava un altro sesto posto. A 31 anni, abituato a vincere com’era alla Juventus, forse si è pentito della scelta e non è disponibile ad aspettare a lungo (perché cari miei, qua l’attesa sarà ancora prolungata) per tornare al successo. Comprensibile. Ma ciò che manca più al Milan sono i punti di riferimento che ne hanno contraddistinto il passato, e Bonucci, se davvero motivato come lo era lo scorso anno, deve fare un passo in avanti mentalmente e prendersi responsabilità che forse alla Juventus erano suddivise in parti uguali tra più leader. Inoltre, con Romagnoli, costituisce una coppia difensiva sulla quale insistere e che sarebbe un peccato andare a sfregiare.
SCARONI. Verrebbe da dire “Berluscaroni”. Dietro l’uomo che si firmerà nelle carte intestate rossonere come presidente, c’è quell’incontro ad Arcore di qualche giorno fa, del quale non sapremo forse mai i contenuti. Ben inteso: il popolo milanista vuole cambiamenti, non l’ombra del predecessore che tanti successi ha portato ma che tanto ha disfatto nell’ultimo quinquennio di presidenza. Al Milan serve gente con anima rossonera, e pare al momento non essercene tanta se si esclude l’allenatore. Il presidente, per come lo si debba intendere in un contesto ordinario, deve essere una figura di riferimento e una persona che si carica sulle spalle le responsabilità, evitando di mandare avanti, come spesso è accaduto negli ultimi anni, persone esecutive che poi si prendono il fango dalla tifoseria seppur i problemi stiano più in alto di loro. Dunque, responsabilità chiare, indipendenza dal passato e onestà con i tifosi: perché il Milan è di loro proprietà, non di chi lo ha violentato come una bambola di pezza in questo disgraziato biennio che peggio di così, solo la serie B. Allora, ci azzardiamo a dire “Buon lavoro presidente”. Perché vogliamo che lavori davvero e che sia davvero un presidente de facto e non solo una firma su carta.