Maldini allunga la lista degli ex rossoneri rientrati al Milan in altre vesti. Con poche soddisfazioni
di STEFANO RAVAGLIA
Se per Bonucci alla Juventus si può tirare in ballo il figliol prodigo, per Paolo Maldini non ci sono sacre scritture che tengano. Perché, senza voler essere blasfemi, sacro è lui stesso per ogni milanista. E perché lui non se n’è mai andato, per cui non può essere un ritorno. Giocatore dal 1985 al 2009, invocato dal popolo negli anni in cui era lontano da San Siro, oggi salito al ruolo di dirigente, il primo della dinastia a vestire non solo la maglia da giocatore ma anche la giacca e la cravatta tipiche delle stanze dei bottoni. Maldini ha sempre avuto una caratteristica peculiare: mai ruoli di secondo piano e assoluta indipendenza di pensiero. Quello che non poteva essere realtà con Galliani (“abbiamo avuto divergenze di idee in passato e avrebbe bisogno di qualcuno che lo affianchi e che capisca meglio la materia”), che poteva essere e non è stato con Fassone, che evidentemente al suo insediamento gli portò un progetto troppo scarno e poco credibile, diventa realtà con l’amico Leonardo, con cui ha condiviso due anni e un po’ da calciatore e i restanti da dirigente.
Il giubilo del popolo dei social è stato tangibile, alla notizia del ritorno di Paolo, ma anche questa atmosfera festaiola e gaudente va per una parte razionalizzato: se da un lato il Milan finalmente va in mano a facce conosciutissime, dalla panchina alla scrivania, dopo una lunga passeggiata al buio nel bosco tra cinesi e bonifici mai arrivati, dall’altro, lavorare fuori dal rettangolo di gioco è tutt’altra cosa. Maldini non è la prima bandiera a divenire dirigente. Accadde, appena appese le scarpe al chiodo, a un certo Gianni Rivera. Nel 1979 fu nominato vice presidente, rimase in carica sino al 1986 quando Berlusconi, anche per le simpatie politiche dell’ex dieci rossonero che mal si sposavano con quelle del Cavaliere, gli disse che per lui proprio non c’era posto nel suo nuovo Milan. Non che Rivera avesse fatto qualcosa per evitarlo: in sette anni il Milan passa dalla stella cucita sul petto a due retrocessioni in B, peraltro una arrivata dopo lo scandalo del calcioscommmesse. Ciò non ha scalfito però nella mente dei meno giovani le giocate dell’Abatino, come ebbe a soprannominato Gianni Brera. E se parliamo anche di panchina, di certo Pippo Inzaghi non ha perso estimatori dopo una pur sciagurata annata sulla panchina del Milan.
Dunque non è tutto oro ciò che luccica: restando in tema allenatori, anche quando Allegri era in procinto di essere esonerato, il nome di Van Basten aveva infiammato la piazza. Se ne parlò per diverso tempo, un eufemismo dire che l’olandese non fosse gradito. Ma, come ribadito anche qualche mese fa in una intervista, il mestiere non faceva per lui. Con una punta di spavento: lo stress e il peso delle responsabilità si erano impossessati del cigno di Utrecht che accusò anche qualche lieve malessere. Prima di mollare tutto e andare alla Fifa, un ruolo più gestibile. Inoltre, non che da allenatore anche lui avesse ottenuto gran che: eliminato agli ottavi nel 2006 con l’Olanda al Mondiale, uscito ai quarti nel 2008 agli europei, l’Ajax con il quale non finisce neanche la stagione e non si qualifica in Champions League, l’Herenveen con qui non va oltre un ottavo e un quinto posto, è l’Az Alkmaar che non comincerà mai ad allenare per i problemi di cui sopra. Con l’eccezione Ancelotti, grande in campo quanto in panchina, anche Franco Baresi ha fatto carriera all’indietro e un po’ anche per colpe altrui: fatto vice presidente e responsabile del settore giovanile appena ritiratosi, passò ad allenare la Primavera, poi la Berretti e adesso è ambasciatore rossonero e capitano del Milan Glorie. Insomma, campo o panchina, non bastano mirabolanti gol al Real Madrid o Coppe dei Campioni in serie per poter far tacere i critici, servono competenze e conoscenze. Ma siamo certi che Maldini, e sarebbe fantastico, possa riuscire ad essere grande anche in giacca e cravatta.