Il 20 febbraio 1979 ci lasciava Nereo Rocco. Un mito nella hall of fame del Milan e uomo di un altro tempo

 

di Stefano Ravaglia

 

 

Il Natale del 1978 sarebbe stato l’ultimo di Nereo Rocco. L’ex allenatore del Milan era apparso stanco a Manchester, nell’andata degli ottavi di finale di Coppa Uefa, dove il Milan perse 3-0 dal City e poi si fece eliminare nel 2-2 di San Siro. Gianni Brera, giornalista ma amico di una vita, gli mandò un biglietto di auguri. Rocco rispose: “Ricambio gli auguri e brindo alle tue fortune, purtroppo con l’acqua Fiuggi”. Se ne stava andando a suo modo Nereo, più che un allenatore, un padre, come solo Ancelotti saprà replicare tre decenni dopo. Il 20 febbraio 1979 si chiudeva un’epoca di calcio ma sopratutto di vita, di genuinità e di guasconeria che fa rabbrividire i tempi odierni, con social-accuse e lacrime teatrali di procuratori showgirl. Altro mondo, altro calcio, altra pasta il triestino massiccio e ruspante che aveva allenato il Padova e quando doveva giocare contro la Juventus rispose “Speremo de no” all’augurio classico nello sport: vinca il migliore.

Rocco e il figlio adottivo Rivera, Rocco e “L’Assassino”, il ristorante dove ci si trovava dopo le partite e dove lui si circondava dei suoi fidati scudieri. Oltre a Gianni, anche Lodetti, Rosato e Trapattoni. Il Milan dei favolosi Sessanta, che vince a Wembley la prima coppa dei Campioni e replica nel 1969 a Madrid: “Chi ha paura dell’Ajax, non scenda dal pullman” , disse ai suoi prima della finale. E lui fu l’unico a non scendere. Il pallone come gioco, come divertimento e ilarità, sport da praticare in braghette e nel fango, mica con le maglie termiche e i campi perfetti di oggi. E se si perde, pazienza. Nel 1973 la Coppa Coppe contro il Leeds e quella richiesta di spostare Verona-Milan mai accolta: 5-3 per loro e la stella rimarrà una maledizione. Rocco lascia il Milan (e la vita) fermo a nove scudetti, ma tre mesi dopo la sua diparita, guardacaso, lo 0-0 col Bologna apporrà la stella sulle maglie rossonere. Come se lui dal cielo avesse pilotato tutto.

Sormani, Hamrin, Rivera, Prati, con Lodetti che si fa il mazzo per tutti. Altro che catenaccio. Fischietto in bocca e tanta leggerezza: “Ora facciamo dieci minuti di questa roba qui, non so cosa serve ma va bén!”. Intercontinentale e Coppa Italia, e lui sempre lì, seduto in panchina col cappello in testa. Il dualismo con Herrera, perché anche l’altra Milano rendeva gloria alla città, seppur il sudamericano fosse ferro e Nereo un pezzo di pane. Con quel vizio tenero di alzare il gomito: una notte a Milanello, il basletta scende a ritirare una bottiglia che il cameriere gli ha lasciato per far baldoria coi suoi in camera. Sulla via del  rientro, quando pare averla scampata quatto quatto, si trova di fronte l’imponente figura del Paròn. Ecco, ora arriva la lavata di testa. E invece no: “La prossima volta che dovete bere di nascosto… Avvisate anche me”. Cosa sei stato, Nereo. Manchi anche a quelli che non ti hanno vissuto, perché per capire un patrimonio di storia milanista, basta vedere il tuo sorriso. Quarant’anni son passati, e sembra ieri. Possa tu da lassù perdonare il pallone di oggi.

share on:

Leave a Response